Mancavano due ore all’imbarco. Mi ero avviato all’aeroporto con un largo anticipo per il timore di incorrere nei problemi che hanno costretto moltissimi passeggeri in volo da Berlino a rimanere a terra, intrappolati dentro autobus fermi, treni in ritardo e taxi in coda. Avevo comprato una tazza di caffè bollente e un bicchiere d’acqua. Avevo trovato un bel divano rosso, con una lampada proprio sopra il tavolo dove avevo appoggiato il mio computer. Era tutto pronto per navigare in internet prima di volare in Italia. Avrei voluto scrivere proprio di quel momento, dell’aeroporto. Avrei voluto pubblicare un articolo sul mio blog, per raccontare di un viaggio dal mio confine preferito. Forse l’unico che abbia veramente un senso.
L’aeroporto si trova fisicamente nel cuore di una Nazione, vicino ad una città, più o meno grande, c’è un passaggio che ha addirittura una sua forma materiale e un momento: il metaldetector. Oltrepassi il controllo della polizia, ti spogli prima di passare sotto il portale, ti fai palpeggiare, ti togli le scarpe, la cintura, ti cadono i pantaloni ma ti chiamano per farti aprire il bagaglio a mano e chiederti cos’è quella cosa nera, che non riescono a decifrare. Quando hai svelato tutte le ambiguità che trasporti, sei pronto per rivestirti ed entrare in quel territorio di nessuno, tra la terra e il cielo, tra Berlino e il resto del mondo, tra la Germania e il tuo Paese, tra un albergo e casa tua.
Luccicano, gli aeroporti. C’è profumo di pane, di Dolce e Gabbana, di gente. Al terminale degli arrivi c’è una miscela di mondo più variegata che a quello delle partenze. Da questa parte sono tutti un po’ tedeschi. Hanno addosso la neve della notte precedente, le scarpe pesanti, lunghi calzettoni di lana sotto i jeans.
Fischiano, gli aeroporti. Con il fastidioso sottofondo dell’aria condizionata sparata da enormi tubi sospesi o nascosti dentro chilometri quadrati di controsoffitti. Con il terribile sonar che tradisce un ladro, con il sibilo di un codice a barre che non si fa riconoscere. Suoni di carrelli e valige trascinati da una parte all’altra con il salto intermittente tra le mattonelle o le vibrazioni assordanti di un pavimento sospeso pieno di piccole tacche antiscivolo che trasformano il trolley in una motosega.
Stridono le turbine, un rumore assordante e intollerabile per più di una manciata di secondi. Ultimo suono violento prima di un sottofondo pressurizzato che, ancora, non è né aria né terra. Ancora, un confine.
L’aereo e il mezzo di trasporto che mi piace meno. Mi piace volare ma non viaggiare in aereo. Mi incuriosiscono i cibi inscatolati dentro vassoi composti e perfettamente uguali. Assaggio sempre tutto e finisco quel surrogato di pasto con un surrogato di caffè che mi scotta immancabilmente il palato.
Volo, dormo, leggo, penso, scrivo.
Non sono niente. Forse è in questo che mi identifico. In questo essere marinaio del cielo in un porto di terra ma in partenza per l’aria. Un biglietto in tasca e una destinazione decisa già da un po’ di tempo. Non si può cambiare né rotta né orario. Ho deciso tutto seduto davanti a quel computer che non ero riuscito ad aprire al mondo.
Mi ero dimenticato, tuttavia, che lo posso comunque aprire ed usare, per scrivere ed essere soltanto qui. Con parole pronte a partire. Con me, come me.
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