Da un paio di anni a questa parte ogni volta che
mi viene voglia di scrivere un pensiero, una storia, un articolo, un post, mi
prende lo sconforto. Guardo la data dell’ultima pagina scritta del mio diario
ed è sempre di qualche mese prima. Guardo la data del mio ultimo post sui blog
dove un tempo scrivevo, ed è addirittura di qualche anno fa (dariosorgato.it e paroleincammino)
Nel frattempo non ho smesso di scrivere
completamente, Ho scritto articoli per un blog (noisyvision.com) che non ha nulla a che
vedere con i viaggi. Ho scritto articoli di viaggio didascalici (tripwolf.com),
che non sempre avevano una relazione con le mie esperienze dirette o con il mio
modo di vivere il viaggio.
Volevo essere un blogger o uno scrittore. E mi
dicevano che per esserlo bisogna scrivere sempre.
Meno scrivo e meno mi sento di esserlo. Se non ho
la necessità forse non è nemmeno questo quello che sono.
A volte mi giustifico, dicendomi che in tutto ci
vuole una pausa, che ogni cosa viene a suo tempo.
Altre volte mi sembra di essere scontato, banale.
Tanto da non avere nemmeno voglia di scrivere per me.
Cos’è gia scritte, parole già dette. Storie già
vissute.
Quando ho voglia di condividere qualcosa scrivo
una frase, un pensiero breve. Uno status su Facebook.
Un po’ per pigrizia, un po’ perché anch’io mi sono
fatto prendere dalla velocità e dalla consapevolezza che la maggior parte di
noi non fa che guardare video o immagini e che un testo scritto deve essere al
massimo lungo fin qui.
Da questo punto in poi la maggior parte dei
lettori si sono già stancati. Hanno ricevuto una notifica, un mi piace e hanno
spostato l’attenzione altrove.
Oppure ci vuole una tecnica diversa. Per poter
catturare l’attenzione e portarla fino in fondo, scrivendo storie di sesso,
storie di scandali o storie umoristiche.
Se parlassi della merda leggerebbero tutti. Un po’
schifati, ma sarebbe come una conversazione sul tempo.
Invece ho deciso che questa volta scriverò. Per
me. E solo chi avrà la voglia e la costanza di leggere qualche riga in più
capirà perché. Magari riuscirò a trasmettere qualche sensazione, come quelle
che ancora orbitano nella rete da qualche anno, da quando scrivevo negli
internet cafè del Sudafrica, del Brasile, o da quando chiedevo un
contributo spese agli amici per potermi permettere la costosissima connessione
internet di L’Avana.
La voglia di scrivere mi è tornata la settimana
scorsa.
Ho superato l’ostacolo della data precedente (28
ottobre 2013, la nascita di mia nipote Rebecca), ho scaldato la penna ed ho
scritto.
14 giugno 2014, il giorno dopo il mio compleanno.
Non ho le parole.
Ho scritto proprio così.
Un paradosso.
Ho cominciato a scrivere ma non avevo parole.
Ho aspettato. Ci vuole allenamento.
E’ arrivata un’onda, si è mosso leggermente il bicchiere
sul tavolo e mi sono ricordato che il mio sangue conosce il movimento del mare.
E’ stato come risentire un profumo. Non so bene
quale sia la chimica del naso, ma un profumo rievoca un ricordo immediato.
Quella piccola onda mi ha riportato in mezzo all’Oceano.
Ero su un’altra acqua. Su un’altra terra, un ‘altra
aria, ma ero tornato, finalmente, in quella parte di me che sapevo di aver
conosciuto.
E’ stato come ritrovare un caro amico dopo tanto
tempo. Quattro anni quasi esatti. Ma il tempo non cambia l’amicizia.
Non ero lì, ancorato in una piccola baia di un
lago del Brandeburgo, a nord di Berlino, per fare il confronto col mare. Non
basta galleggiare per dire se è meglio il sapore di sale o quello del fango.
Non c’è niente in comune.
Non sono riuscito a trovare somiglianze nemmeno
con quello che finora conoscevo del lago.
Ho conosciuto un nuovo pianeta. Ho conosciuto una
nuova luce e uno spettro diverso dei colori delle ultime notti di primavera.
Quell’onda leggera è servita soltanto a svegliarmi
da un torpore meccanico e veloce.
E’ servita a darmi un nuovo tempo.
Proprio io, che avevo conosciuto il tempo lento
dei piedi, mi ero scordato che si possono dimenticare le ore, i minuti e che
ogni tanto ho bisogno di guardare a lungo il profilo annebbiato di un orizzonte
che non sia città.
Alberi, erba, magari un uccello in volo di cui non
conosco la specie. A volte i miei occhi abbagliati non distinguono nemmeno una
foglia da un ago. Vedo soltanto la forma lontana della terra piatta, uno strato
di bosco che a giugno non ho mai visto così verde.
Io non sapevo cosa fossero i laghi, quelli del
nord. I corsi d’acqua lenti, i dislivelli tra un canale e il successivo,
separati da chiuse di metallo pesante.
Non sapevo cosa fosse il nord.
Avevo visto la luce d’argento di una luna piena d’ottobre
sopra uno anello dove ho fatto l’amore.
Ora so che al nord i tramonti sono infiniti. So
che la luna nasce timida dietro i tronchi, appena sopra le canne sulle rive, si
nasconde per qualche minuto dietro le foglie e poi sale e illumina due volte la
breve notte. Dall’alto dell’universo cui appartiene e da quel riflesso fermo,
quasi perfetto, di un’acqua specchiante dove non vola niente. Forse farfalle
notturne, o zanzare troppo stanche per allontanarsi dalla costa.
E’ questo che non riesco a scrivere, perché non
riesco nemmeno a pensarlo.
Vedo un disco nel cielo, so che è lontano, so da
dove viene la sua luce, ma non ho mai abbastanza silenzio per ascoltare questa
distanza, per guardare senza nessun motivo la luce leggera della luna su uno
stagno.
Guardarla soltanto, senza doverlo dire a nessuno,
senza doverlo raccontare. Non ora.
Avevo bisogno di questa vita. Di ricordarmi che
sono piccolo. Avevo bisogno di misurarmi con il cielo, di vederlo tutto intorno
a me. Avevo bisogno di sentire il vento freddo.
Non spinge le vele e non porta nessun canto
lontano.
Il vento del nord ripete il verso delle anatre, di
qualche uccello che non conosco per nome.
Se non ci fosse la luna porterebbe qualche goccia
di pioggia.
C’è acqua anche nell’aria. Ho voglia di bere.
Succhio un cubetto di ghiaccio, una scorza di
limone.
Non ho sale sulle labbra. E non sento odore sulla
pelle, non sento bruciare.
E’ molto più mite il nord.
Ninfee e piume.
Nemmeno le stelle.
Non le ho viste come non le vedo da anni, ma non
me le ha raccontate nessuno. Non le ha contante nessuno. Lei lo avrebbe fatto per
me. Sono astri d’amore, le stelle.
Siamo sei, siamo nel mezzo di questo cielo immenso
e allo stesso tempo piccolo come uno stagno.
Siamo chiassosi. Ma io non capisco molte parole.
L’ho detto che non ho parole.
Né mie, né altrui.
Non ho tempo e non so dove sono.
Sono in un posto sconosciuto che un giorno saprò
che era Germania.
Ho conosciuto l’Oceano, che non è mai fermo, ho
visto la terra sparire e qui non scompare mai.
Conoscevo la luce sulle piccole onde della sera,
morbide prima di risposarsi.
Non c’è rotta ma nemmeno strade, non c’è bussola,
ma c’è profondità.
Anche questo è navigare.
Scivolare rumorosi dentro il silenzio. E dondolare
senza farsi male.
Ho avuto 36 anni per 24 ore e mi sono visto pazzo.
Ho riso di me. Ho visto quel fiore incollarsi a me con filamenti di umore che
non ho mai rotto.
Era vero.
E’ una poesia che un giorno mi racconterai.
Quando saranno spariti i numeri sulla mia pelle.
E ancora tu, un mattino, mi svegliavi sfiorandomi.
Prima che fosse giorno.
Mi torturavi e non mi lasciavi dormire.
Era già giorno, era lo stesso giorno.
Era soltanto ieri.
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