Mi piacciono le cose vecchie. Gli edifici abbandonati. Mi piace la ruggine, il legno marcio, le foglie secche, l’acqua sporca, le catene, i lucchetti di cui non si trova più la chiave, i cancelli chiusi con l’erba cresciuta attorno, i sentieri con le buche.
Credo sia una delle ragioni per cui mi piace Berlino. CI sono molti edifici vecchi, ciminiere che non fumano, mattoni rossi ricoperti di graffiti. Nell’ordine della città ci sono ancora molti spazi rotti. Alcuni vengono riutilizzati temporaneamente, occupati, fatti rivivere in attesa di una nuova destinazione d’uso. Altri si fanno conquistare dal tempo, dal freddo, dal silenzio e da qualche incursione illegale.
Tempo fa volevo andare a vedere il luna park abbandonato di Planterwald, per vedere i dinosauri, la ruota panoramica ferma, le giostre che non fanno divertire. Ma proprio quel giorno era aperto al pubblico e non vi avrei trovato quel fascino dell’abbandono che solo la solitudine amplifica. Avrei visto quello che io volevo penetrare da vicino, toccare. Volevo essere lì, dentro le storie silenziose che la meccanica ferma, il metallo ruggine non si degnano di raccontare ad un pubblico troppo numeroso. Non entrai.
Oggi, stimolato dalla bella giornata, ho deciso di fare il mio secondo tentativo di illegalità. Destinazione Teufelsberg, la Montagna del Diavolo. E’ la collina più alta di Berlino, 80 metri sopra la piana di Brandeburgo. Incredibile ma vero, è un monticello artificiale, realizzato accumulando le macerie della distruzione della Seconda Guerra Mondiale, 120 mila metri cubi di pietre, mattoni e polvere. Sotto le macerie c’è una vecchia scuola nazista che le bombe non riuscirono a distruggere, per cui si decise di seppellirla.
Negli anni ’60 l’Agenzia di Sicurezza Nazionale degli Stati uniti costruì la più grande stazione di ascolto proprio sulla cima di questa collina. Da allora le storie di spionaggio, di tunnel sotterranei e le leggende più o meno vere del periodo della Guerra Fredda, hanno consolidato l’alone di mistero che si espande intorno a questa costruzione tanto singolare.
Come dicevo, avrei voluto entrare scavalcando qualche rete, magari strappandomi i jeans, graffiandomi la faccia su un chiodo sporgente. Avrei voluto scappare inseguito da cani rabbiosi e rimanere appollaiato su un albero fino a quando un poliziotto tedesco mi avrebbe invitato a scendere per portarmi alla Centrale di Polizia o per farmi una multa.
Niente di tutto questo. Nonostante la piacevole solitaria passeggiata nella Foresta Verde, poco prima di arrivare in cima, ho cominciato a vedere auto parcheggiate e coppiette di fidanzati in ciabattine che si godevano il fresco dell’ombra degli alberi di una delle poche giornate con oltre 25 gradi dell’ intera estate.
In effetti non appena ho avvistato il primo edificio, chiaramente abbandonato, ho visto una fila di gente che firmava un foglio. Ho cercato di fare l’illegale almeno con la coda, ma niente da fare: sgamato subito.
Mi sono messo in attesa e dopo pochi minuti ero sulla cima della tanto spaventosa montagna, circondato da vecchietti e ragazzini che approfittavano della giornata nazionale (o cittadina ?) dei monumenti aperti, per visistarne uno che di solito non si può vedere se non da lontano.
Tuttavia l’edificio è piuttosto grande e all’ interno la gente di sparpagliava al punto che in molti casi mi sono trovato solo.
Solo tra muri, avvolto nell’odore pungente di vernice a spruzzo di graffiti disegnati di fresco.
Solo, con i piedi sul ciglio di un pavimento a strapiombo sulle tavole spezzate, i mattoni spaccati, sul tetto metallico con una grossa scritta bianca.
I visitatori che incrociavo non mi disturbavano più. Era tutto mite, calmo.
Forse anche gli altri, come me, si sono fatti prendere dalla suggestione di scale scure, avvolte nell’ombra, vetri che scricchiolano sotto le scarpe, qualche angolo che emana puzzo di piscio. Polvere sulle cose, sui pavimenti. I muri sembravano incastrarsi in uno strano gioco magico. Le pareti verticali esterne, completamente inesistenti, aprono lo sguardo su tutta la città . 360 gradi di visuale, e sempre, comunque, una grossa palla bianca catalizza l’ attenzione. Tre grosse palle bianche sovrastano l’intera struttura. Una più piccola si inserisce sull’orizzonte.
Mi sono seduto su un alto muro. Guardavo i graffiti prendere forma, ricoprire quelli precedenti con nuovo colore e nuova arte. Parole che non capivo. Non ce n’era nessuna, nemmeno per me. Non avevo pensieri definiti, precisi. Ero piccolo. Nascosto. Ero una minuscola particella di colore, posata solo per qualche istante.
Ero temporaneamente fissato su una mattonella all’ombra, circondato dal perimetro di un quadro di luce disegnato da un sole diafano, caldo ma lontano.
Ero attaccato ai corrimani inchiodati nel buio, e salivo scale di cemento, mentre mi arrivavano le voci di uno spettacolo di teatro.
In quel momento mi sono resto conto che se fossi stato illegale, non ci sarebbe stato nessuno. Forse nemmeno avrei avuto modo di confrontare le proporzioni, di farmi cospargere la lingua di vernice gialla.
Forse non avrei nemmeno ascoltato quel saxofono lucente, il suo suono forte, l’eco tonante dentro la palla più alta. Il violino stridente.
Dentro quella palla bianca era buio. C’erano solo le note di una musica che non era canzone. Era solo il suono. Tutti i suoi viaggi geometrici dentro la palla. Ho provato a contare quante volte poteva rimbalzare, prima di arrivare, più o meno forte, alle mie orecchie. Sono quasi riuscito a vederlo, quel lungo soffio, mentre rimbalzava su quei triangoli strani, prima di morire, tra la polvere e il vetro, o dentro di me.
Ora piove, c’è una regola matematica che dice che a Berlino, dopo una giornata di oltre 25 gradi, c’è il temporale. Matematica, non si sbaglia. Mai.
Ora c’è il temporale. Uno estivo, stupendo e fresco, come quelli della mia campagna. Vorrei poter vedere quegli stracci pedenti grondare gocce d’acqua. Intravedere le forme soltanto per la frazione di secondo di un lampo. Sarebbe tutto spettrale, nero e tremendamente bianco. Vorrei sentire il suono della pioggia dentro la palla. Vorrei sentire il suono di un tuono, dentro la palla. Vorrei vederlo saettare come le note di un saxofno e farlo morire, anche quello, dentro di me.
Se dovessi scegliere, di nuovo, quando essere illegale, vorrei poter essere lassù, sulla torre che sovrasta la macerie della Montagna del Diavolo. Lì, aspetterei il temporale. Da solo, o con te.