VIAGGI, PENSIERI, EMOZIONI
--------------------------------------

Tuesday, June 16, 2009

Caleidoscopio



Adesso si te lo racconto.
Vieni qui.
Siediti su questa sedia, su questo pavimento di legno marcio. Su questo tetto, di questa città.
E' deserta, la città.
E'piena di aria fredda, luci violente che cammuffano le forme e qualche sagoma di uomo che non sa dove andare.
Siediti.
Spegni la sigaretta, appoggia le scarpe. Metti le tue suole a tacere, sfregale sul legno e puliscile della strada che hai camminato.
Asciugale. Stringi le ginocchia l'una contro l'altra e smettila di soffiare aria dal naso. Devi stare in silenzio come tutte queste vie, cosi' chiassose fina a poche ore fa.
Dove sono andati tutti quanti? Correvano. Correvano tutti. Mi strisciavano addosso piu' veloci di tutte le cose che avevano da fare.
Siediti.
A qualche metro dal rumore che si appoggia come polvere lacerata dalla luce di una vecchia stalla, finalmente era pronto per ascoltare.
A me tremavano le gambe, ma cercavo di fare in modo che non si notasse, tenendole distese e accentuando il movimento pneumatico involontario con cui tamburellevo una lamina di legno leggermente prosiugata nei mesi d'estate.
Pero' cominciai a parlare.
Era una un raggio di sole che penetrava una finestra con vetri blu quella mappa del giorno appoggiata sul pavimento lastricato di pietre rosse.
Accoglieva il mio primo passo all'ingresso di un labirinto di caverne perfette che non riuscivo a percorrere in posizione eretta.
Si srotolava davanti a me, come un tappeto reale, per separare le dodici ore di viaggio dalla dimensione in cui mi avevano condotto.
Avevo viaggiato tutta la notte, su un autobus apparentemente di lusso. Mi avevano servito una cena d'aereoplano, costringendomi a mangiare ocn una mano perchè l'altra era impegnata a non spandere il vino. Poi avevo provato a dormire, semidisteso accanto ad un ragazzino spaventato dalle storie che gli sussurrai senza sapere nemmeno il suo nome.
Gli raccontai di quella notte in un paese di cui non ricordavo il nome. C'erano tanti bambinie pochi genitori. I bambini tenevano in mano palloncini colorati e urlavano. Urlavano. Con quelle voci terrificanti della loro contentezza. Strillavano tuti assieme ed era impossibile capire cosa dicessero. Era un suono unico. Senza significato. Dopo un po', pero', decifrai involontariamente una frase. poi un'altra. Due parole. Altre due. Erano sempre due. Al massimo tre.
I bambini urlavano besttemmie.
Stavno bestemmiando.
Bestemmiavano dio ed erano felici.
Bestemmiavano tutti. Si rincorrevano, si toccavano, si tiravano le magliette, cercavano di far volare i palloncini degli altri. E bestemmiavano.
Quel ragazzino, semidistesa a fianco a me, si era addormentato su questa storia blasfema. Non saprà mai se glil'hanno raccontata davvero.
Non lo vuole nemmeno sapere.
I frammenti dell'aurora di questa storia, qualunque composizione chimica l'abbia composta, erano parte di quel disegno blu steso sul pavimento all'ingresso di un territorio nuovo.
Non avevo nemmeno disfatto le valige che stavo staccando arance dagli alberi, le sbucciavo e me ne addentavo gli spicchi.
Il succo fresco mi esplodeva in bocca e le minuscole gocce mi entravano nelle cavità orali. Ogni volta che mordevo uno spicchio i denti laceravano la pellicola sottile dello spicchio stesso e tutta la vita di un'arancia mi perccoreva la schiena.
Tutto il sole che l'aveva scaldata, tutta l'aria che l'aveva raffreddata, tutte le foglie che l'avevano accarezzata, tutta la pioggia che l'aveva bagnata. Tutto quello che era stata l'arancia prima di essere un frutto per me, mi esplodeva in bocca e mi scendeva lungo la schiena, costringendomi a muovere i piedi, prigionieri di radici che quell'albero non voleva tra sè.
Jeronimo e Anita mi prepararono un surrogato di colazione in una cucina che sembrava in disordine ma che imparai a vedere pulita e organizzata.
Poco dopo eravamo in un'altro giardino. Era la casa di Juani.
Suo figlio spingeva un tricilo di plastica cercando di posizionarlo sopra i grossi massi.
Ma perchè vuoi fare così tanta fatica?
Siediti, bambino.
Ascolta anche tu.
Ascolta la musica di tua madre.
Era una strega.
Una strega bellissima, è possibile?
Aveva i capelli arruffati. Quelli che avrebbero dovuto coprirle la fronte erano tenuti da fermacapelli d'argento. Fumava una sigaretta che non si consumava mai.
Poi prese il violino. Lo estrasse con cautela dalla custodia, lo inseri`tra il mento e la spalla e comincio' a suonare.
Stava suonando nella foresta, ai piedi di alte montagne, parzialmente nascosta da una ampolla di mate fumante, con una cannuccia di metallo conficcata nell'erba calda.
Juani non parlava. Ma nemmeno ascoltava.
Sgridava il bambino o forse lo stava soltanto consigliando.
"E' meglio che ci rinunci"
Qualche decina di minuti dopo io, Jeronimo e Anita eravamo in un'altra casa.
Era piccola anche questa. Fatta di pietre giganti e travi di legno.
Sembrano tutte case per gli elfi, qui. O li'.
Vetri colorati, grosse archi e altre curve di legno, pavimenti di argilla, balconi di sequoia.
Tutto molto materico. Come se le case fossero uscite dalla terra, spuntate come funghi con dentro chi le avrebbe abitate.
Ci sono anche case di un secolo. Decadenti e decrepite. Senza luce ne porte.
Polvere e oggetti. Scarpe sotto le sedie, barattoli di marlmellata vicino al letto, confezioni di biscotti aperte e fogli di carta graffiati dai bambini appesi alle pareti come opere d'arte di inestimabile valore.
Dicevo.
Ci spostammo in un'altra casa.
C'era anche la piscina. Qualche dito d'acqua verde ricopriva il fondo e nifee rubate ad uno stagno decoravano la superficie.
Una brutta bambina giocava attorno all'azzurro scrostato di un buco azzurro nella terra che forse d'estate si chiamava piscina.
Era davvero una brutta bambina. Aveva una maglia bianca e una gonna piu' rossa delle fragole finte sopra il tavolo della casa di mia zia.
Correva e calciava un pallone sgualcito che perdeva brandelli di imitazione di vacca.
Io comincia a spaccare noci, rapido per l'ingordigia, maledicendo i piccoli pezzi di guscio duro che mi facevano scricchiolare i denti. Smisi soltanto quando nel tentativo di spaccare una mandorla ruppi lo schiaccianoci di legno e lo riposi sul tavolo facendo finta di niente. Addebitati il forte dumore di legno lacerato alla mandorla, imitando chi ne conosce il gusto e ne elogia la bontà.
Consumammo un piatto di riso, fagioli bruciati e carote, poi tornammo a casa.
Quella che stava per diventare la mia casa.
Nino sarebbe arrivato la mattina dopo.
Mi aspettavo un uomo.
E al mattino, arrivo'.
Era una donna magrissima.Vestita di nero. I capelli neri.
La cosa che non poteva passare inossrvata erano le rughe profonde del viso.
Rughe da immortale appiccicate ad una faccia di 64 anni. Forse saranno le sigarette.
Ogni volta che aspirava una boccata di fumo risucchiava un po' di se' stessa. Come se lei fosse la brace di quelle sigarette maleodoranti che aveva sempre in mano o in bocca.
Nino e' simpaticissima. Super dinamica e attiva. E' gentile.
Per un paio di giorni siamo stati coinquilini. Abbiamo chiaccherato davanti al fuoco del camino, mi ha raccontato la sua vita da quelle parti e le sue scorribande piuttosto estreme.
Il mattino seguente mi sarei messo in cammino, per salire sulla montagna.
Mi svegliai presto, prima del giorno e mentre preparavo il caffe`notai che mancavano i biscotti. Me li aveva rubati Nino.
Nino era simpatica, ma mi aveva rubato i biscotti.
Mi misi in cammino. AL mattino. Con Juani.
Lui mi chiedeva dell'acqua.
Di quanta era, quanta ne avevo vista e quanta ne avevo bevuta.
Tutta quell'acqua e non poterla bere, se non dopo che e' passata dal cielo.
In due ore di cammino tra le rocce costeggiando un fiume, una malga o una mula, siamo arrivati in cima.
Juani batteva le mani, per annunciarsi.
Non rispose nessuno.
Juani spinse la porta e intavidi quello che l'oscurità voleva nascondere dentro quella casa, incastrata nella foresta.
Un rosone di bottiglie di birra trasudava la tenue ombra della montagna che si infrangeva nelle foglie.
Pannocchie appese alle travi, una scodella di metallo, bucce d'arancia, un paio di gusci di noci, un martello, un materasso.
Un mate e un thermos.
Non te l'ho detto? Ci sono mate e thermos ovunque.
Rolf non c'era.
Aveva lasciato ìl Rolf che era stato fino al giorno prima sottoforma di rimasugli a custodiure pezzi di tavolo, di pavimento, di aria.
C'era piu' di quanto potesse esserci davvero, materializzato nelle cose che aveva toccato e presente piu' della sua immagine che avrebbe nascosto tutto., distranedo i miei occhi dai dettagli della sua vita.
Andammo a vedere se c'era Jose`.
Se c'era la coppia.
Juani salí alcuni gradini di terra e si infiló tra le fronde che sovrstano le casette poco piu`su.
Non c'era nessuno.
Juani voleva andare.
Mi lasciò la farina per la coppia e se ne ando`, lasciandomi solo, come una lucertola su una pietra, a contare i cristalli dell'acqua che mi correva di fianco.
Aspettai.
Aspettai solo il tempo di sentirmi li'. In quale luogo e da nessun'altra parte.
Appena quel tempo passò sentii i passi pesanti si un uomo che si avvicinava.
Era Josè.
Vestito da uruguayano con una bambina in braccio.
Lo seguiva Semisha. La sua donna.
Erano una coppia di cuori.
Due cuori e una capanna.
Erano loro.
Quelli che vivono soli, tra la natura, raccogliendo legna tutti i gioreni, lavando i pannolini della bambina tutti i giorni, facendo il pane tutti i giorni, accendendo il fuoco tutti i giorni, curando le piante tutti i giorni.
Loro, una figlia di otto mesi, nata li', con loro e loro soltanto. E una capanna. Un laboratorio e nessun bagno.
Una cucina.
Semi, noci, zucche, farina.
Che farina.
Macinata sotto denti di mettallo ruggine, Grani spinti contro quel giallo da tritare. Cotto dal sole e tostato dal fuoco.
Pane di grano, zuppe di grano.
Arance e ogni cosa che la montagna mette sul tavolo. O per terra.
Ho passato il pomeirggio con loro,a farmi raccontare una vita di un secolo fa.
E poi la notte, steso nel silenzio, accanto al canto del fuoco, imprigionato in una stufa di metallo. Costretto a leggere mattoni, travi, sotto coperte di terra. Fuori pioveva notte e luna. Cadeva come acqua piena, senza bagnare.
Freddo senza vento. Nessun sogno.
Al mattina guardai rinascere il fuoco, aspettando il suo calore, piu`veloce delle ombre del mondo.
Mangiammo cialde di farina e acqua splamante di marlemllata di mirtilli, compartimmo un mate e poi me andai. Ancora spruzzato della luce del giorno, scivolata sopra un tetto di lamiera splendente, coperto da una scacchiera di grossi massi, immobili senza vincitori nè vinti.
E poi.
Poi.
Il mio compleanno, che e' anche quello di Juani.
Il mio nuovo uno.
Carne, vino, pane. E qyalche faccia nuova.
Ho brindato cosi', con amici di un giorno, di un pomeriggio, di un compleanno, Tra cani tranquilli, molti bambini e olive secche. E nere.
Anche qualche gatto.
Un compleanno allungato fino a domenica, forse fino a lunedi mattina.
Esteso nello spazio tempo di tutti i mondi a cui appartengo.
Quello dei tasti con cui scrivo questa storia, Cosi' duri da premere. La devo sbattere sul tavolo questa storia, Prima che entri dentro questo mondo.
E poi la leggo. E la rileggo.
E poi qualcuno l ascolta.

SI.
Ti sto ascoltando, continua. Quali altri mondi?

Quello che ogni giorno si crea davantia te.
Sotto i tuoi piedi e nella tua mente.
E le persone che incontro.
E le strade di Cordoba. Deserte al mio arrivo.
Non c'era nessuno. Nemmeno le case sembravano esserci. Solo i loro muri e qualche ricciolo di vento. Auto ferme Saracinesche chiuse.
Su questo tetto, c'era una chiesa, rimbalzata tra i palazzi e spiaccicata contro i vetri di un cubo nel cielo.
Odore solforico leggermente sospeso dal pavimento del corriodoi dovanti alla porta della mia stanza.
E notte. Deserta.
I fari incassati dentro la strada si spingevano fino alle curve di marmo o di stucco.
I miei piedi inzuppati di millimetri d'acqua che ripassavano i contorni dei marciapiedi.
Invisibili ai cittadini di questa città,
Queli città?
Cordoba o Posadas.
Fuse nelle venti ore che le separano, uguali alla mia altezza, mentre, disteso, mi lasciavo rotolare come uno spiedino imperniato tra loro, Una alla testa, l'altra davanti ai piedi.
Storie infilate tra pietre rosse di quatrocento anni e blocchi di lava e argilla
Sorte sulle le fondamenta di altre ancora. come alberi o fiori
Le rubai a quel deserto centenario per poi, un giorno, consegnarle.
Sputarle per terra, perché qualcuno le possa calpestare.
Alcune le custodisco. Le trasporto in gola come pezzi di foglia sulla schiena di formiche che preparano la lro dimora prima di un giorno di pioggia.

No comments: