Yesterday I managed to publish only this.
No words.
Today I want to find them. I want to search through the rubble and dust the words to describe this shock.
A shock wave like a tsunami has traveled half the Earth and devastated me.
My clock is still synchronized on the time of Kathmandu, on those strange 5:45 hours difference.
It was my way to feel still a bit there.
On the table an exhibition of souvenirs. Tibetan bowls and bells that have not woken the right gods.
Colorful prayer flags hanging from the lamps and a red and white cloth on the door.
A book about the adventures of the climbers.
Crusts of earth on the soles of the shoes.
Nepal is in the air in my house. Mountain air.
I was still in the silence after the trip, the time in which I enjoy thinking these objects come from far away and have brought them here myself.
I was trying to digest my adventure, to figure out how to put it in order to tell it and make it become the wave of yellow that was to invade the world. #yellowtheworld
And now?
What sense have my steps, my efforts, my emotions?
Where do I put this whole story?
I have images in the eyes and over 3000 digital photos. I have videos of the temples and the chaos of Kathmandu.
It will never be the same city.
I have so many stories I had already put into chapters. Each with a name.
I just had to wait a few days.
Instead I have to start over.
Start again and this time do not know where.
There are the dead bodies. Many. Too many.
There are thousands of people homeless, with nothing.
I can not even get direct news of my friends. Maybe Dil, my guide, was walking up there with some other trekkers. Who knows if and when they will get back a bit of electricity to charge the phones.
Who knows when the phone lines will be working again. Where everything is so slow.
It was already difficult before. It was hard to rebuild Nepal after the fall of kings. And now? What will be of this small state that has the fortune and misfortune of being nestled under the roof of the world?
No wonder if there was an earthquake. It is not the first one. Will not be the last. But perhaps no one remembers the previous, too far away to be in the life of one man.
Only eighty years that in the time in the world are just a sneeze after another.
But they are not a random time for me.
I framed a trip to Nepal between a plane crash and a devastating earthquake.
Somehow I was lucky.
I am an almost-dead.
Not so much because I risked, but because it is as if the earthquake had destroyed my memories that I had yet to begin to remember.
It is a selfish thought.
Who cares of my memories when the earthquake destroyed a country and the lives of many people.
It is not so simple.
My memories are not just what I wanted to remember. I had the desire to go back, to contribute to the daily life of those few Nepalese I met in person, the desire to do something for the future, to fulfill a wish launched with a rusted no value coin in the fountain under the statue of a giant Shiva.
I have to go back to silence.
Or maybe I have to move my next steps over broken bricks, pieces of sunken road.
This time is different.
I can not compare the power of a Japanese tsunami or an Indonesian earthquake, the magnitude is not only a geological matter.
The violence of this shock shakes me to the core. It is not true that all lives have equal value. We feel sorry for the deaths but in a short time they will be just numbers.
Nepal has to start again and perhaps Thailand shows that it is possible.
And the reconstruction will be mine too.
Who asks me how I feel maybe I’ll still give suited answers, as I have done so far to disguise my desire not to say anything false.
I’ll have to lie again.
Because I cannot tell everyone that I contemplated death and analyzed in detail all the items of insurance policies. I was afraid of that small plane flying out to Lukla, I was afraid that there were high ravines and crevasses. I also contemplated the idea of an hearth attack and that I would vomit my soul reaching for air. But at the item “Natural Disasters” I scrolled down.
I escaped one of the largest of Nepal.
The world has gone crazy. It is a fact.
Now I want to try not to go crazy with the world.
Kathmandu and Nepal were already before places of dust.
Many people are wearing masks and scarves to protect the airways.
Now I just hope that the winds will be blowing to make it disappear and to filter some sunshine.
I do not know what color hope has.
I’ll take a random one.Perhaps still yellow, which in prayer flags symbolizes … the earth.
When I knew I felt a new shock. Shivers this time.
As if it was all my fault.
Sunday, May 3, 2015
Un quasi-morto. Sensazioni devastanti dopo il terremoto in Nepal

Ieri sono riuscito a pubblicare solo questo.
Senza parole.
Oggi le voglio trovare. Le voglio cercare tra le macerie e la polvere le parole per descrivere questa scossa.
Un’onda d’urto che come uno tsunami ha viaggiato per mezza Terra e ha devastato anche me.
Il mio orologio è ancora sincronizzato sul fuso di Kathmandu, su quelle strane 5:45 ore di differenza.
Era il mio modo per sentirmi ancora un po’ là
Sul tavolo una esposizione di souvenir. Campane tibetane e campanelle che non hanno svegliato gli dei giusti.
Bandiere di preghiera colorate appese ai lampadari e un telo rosso e bianco sulla porta di casa.
Un libro sulle avventure degli scalatori.
Croste di terra sulle suole delle scarpe.
C’è aria di Nepal in casa mia. Aria di montagna.
Ero ancora nel silenzio post viaggio, quel momento in cui mi godo questi oggetti pensando che vengono da lontano e li ho portati qui io.
Stavo cercando di metabolizzare la mia avventura, di capire come metterla in ordine per raccontarla e farla diventare quella ondata di giallo che doveva invadere il mondo.
E ora?
Che senso hanno i miei passi, le mie fatiche, le mie emozioni?
Dove metto tutta questa storia?
Ho immagini negli occhi e oltre 3000 scatti digitali. Ho i video dei templi e del caos di Kathmandu.
Non sarà mai più la stessa città.
Ho tante storie che avevo già messo in capitoli. Ognuno con un nome.
Dovevo solo aspettare qualche giorno.
Invece devo ricominciare.
Ripartire ancora e questa volta non so da dove.
Ci sono i morti. Tanti. Troppi.
Ci sono migliaia di persone senza casa, senza niente.
Non riesco nemmeno ad avere notizie dirette dei miei amici. Magari Dil, la mia guida, era in cammino con qualche altro trekker. Chissà se e quando potranno riavere un po’ di elettricità per ricaricare i telefoni.
Chissà quando le linee telefoniche riprenderanno a funzionare laggiù. Dove tutto è così lento.
Era già difficile prima. Era difficile ricostruire il Nepal dopo la caduta dei re. E ora? Che ne sarà di questo piccolo Stato che ha la fortuna e la sfortuna di essere annidiato sotto il tetto del mondo?
Non c’è da stupirsi se c’è stato un terremoto. Non è il primo. Non sarà nemmeno l’ultimo. Ma forse nessuno ricorda il precedente, troppo lontano per essere nella vita di uno stesso uomo.
Sono solo ottant’anni che nel tempo del mondo sono soltanto uno starnuto dopo un altro.
Ma non sono un tempo casuale per me.
Ho incastrato un viaggio in Nepal tra un incidente aereo e un terremoto devastante.
In qualche modo sono stato fortunato.
Sono un quasi morto.
Non tanto perché abbia rischiato, ma perché è come se il terremoto mi avesse distrutto i ricordi che dovevo ancora cominciare a ricordare.
E’ un pensiero egoista.
Chi se ne frega dei miei ricordi quando il terremoto ha distrutto un Paese e la vita di moltissima gente.
Non è così semplice.
I miei ricordi non sono solo quello che io volevo poter ricordare. Sono la voglia di tornarci, di contribuire alla vita quotidiana di quei pochi nepalesi che ho conosciuto di persona, la voglia di progettare qualcosa per il futuro, di esaudire un desiderio lanciato con una moneta ruggine senza alcun valore in fontana sotto la statua di un grande Shiva.
Devo tornare di nuovo a tacere.
O forse devo muovere i miei prossimi passi sopra i mattoni rotti, i pezzi di strada sprofondati.
Questa volta è diverso.
Per quanto non possa comparare la potenza di uno tsunami giapponese o un terremoto indonesiano, la magnitudo non è solo una questione geologica.
La violenza di questa scossa mi scuote nel profondo. Non è vero che tutte le vite hanno lo stesso valore. Perché ci dispiacciamo per i morti ma in breve tempo saranno solo dei numeri.
Il Nepal dovrà ripartire e forse la Thailandia dimostra che è possibile.
E la ricostruzione dovrà essere anche la mia.
A chi mi chiede come mi sento forse dovrò dare ancora risposte di circostanza, come ho fatto finora per camuffare il mio desiderio di non dire niente di falso.
Dovrò di nuovo mentire.
Perché non ce la faccio a dire a tutti che ho contemplato la morte e analizzato nel dettaglio tutti gli articoli delle polizze assicurative. Avevo timore di quel piccolo aereo che vola su Lukla, avevo paura che ci fossero alti burroni e crepacci. Avevo contemplato anche l’idea che mi scoppiasse il cuore in petto e che vomitassi l’anima in cerca di aria. Ma alla voce “Disastri Naturali” avevo tirato dritto.
Ho scampato uno dei più grandi del Nepal.
Il mondo è impazzito. E’ un dato di fatto.
Ora voglio provare a non impazzire con il mondo.
Kathmandu e tutto il Nepal erano già prima luoghi di polvere.
Molti indossano mascherine e foulard per proteggere le vie respiratorie.
Ora spero soltanto che soffino venti capaci di farla sparire e far filtrare qualche raggio di sole.
Non so più che colore abbia la speranza.
Ne prenderò uno a caso .Forse ancora il giallo, che nelle bandiere della preghiera simboleggia… la terra.
Quando l’ho saputo ho sentito una nuova scossa. Brividi questa volta.
Come se fosse tutta colpa mia.
Come aiutare il Nepal devastato
Thursday, July 10, 2014
Train Moscow - St. Petersburg. Northern Lights 2
Someone was playing a violin
in the marble hallway. Light almost diurnal and sweat and heart
pounding.
Last steps in this city where I had decided not to run.
Same day of a red stone sunrise.
Red.
It 's already a new day, new world, new city.
It was a sunrise also the one I saw this night. A night it has never
been.
Reflected in this small room in movement, where I went to sleep
laughing among strangers, with a kiss of wine no more illegible.
As a three, a en, also reflected, to become the beginning of a name.
I was looking for the first lights of a slow day in a mirror that I
had mistaken for a window.
Where am I going?
I'm somewhere between the east and the north. Among the plains of an
endless land.
I sleep longer, I try to dream without the darkness.
What a strange world.
Long noses of old barking
ladies and dumb dogs for good luck.
Easter eggs and cake shaped women floating on shallow steps.
What a noise in the bowels of the earth, decorated with stones and
light and ugly pictures of flowers.
More stairs, people going up and down. No one is talking, no one is
stopping.
I've seen them screaming inches away from me, but I did not hear
anything. I would not understand
anything.
What a long day.
It begins at the market, among shoals of stringy cheese, smoked like
the fish.
I do not smell anything but light scent, nor caviar neither flowers.
Two citizens and a devil who did not want to drink with us.
Yes, us.
She was running behind toasted Uzbeks along a river where words of
scorpions that change the world are still blowing.
Who knows what change I thought when I was a kid and did not know
she was dancing and living far away.
And studying in a huge castle, and was laughing under the mustaches
of scientists, also made of marble.
It was not an illusion, huge as well. Thousands of men and women
alienated inside, at the same time convinced that they serve the power.
It could everything. It could the red half of the world till the empire
of sun.
It was still the same day.
Atomic.
I do not know where I started, maybe I recognize the morning from
your loneliness, your half happiness.
Finally I can touch you with no plastic, in this piece of day that
is not over yet, it starts only in a new city.
There is still light.
There is always light.
Golden light on rooftops of god, on the ramparts of the war, on
anything that might shine.
On water and toy-churches entertaining men who were terrible.
There is noise in this small europe built on mud. There are voices
around every corner. Hidden inside things. I can not listen to them and they
make me sleep.
I sleep under low bridges, I can touch them, I can cross them.
I sip Italian grapes.
It should be evening.
What is the eveing? Those light hours governed by the birds, maybe by
the serene after a summer storm.
You’ll tell me when the evening comes.
I still feel the heat on the skin, I can feel it coming out of a
glass and a star that should be the same as my sun.
I see the light on the hot candles of that stone coloured cake built
on a river of blood.
But still do not know that I have not seen all the moments of the
northern light.
The world is not only made of bell towers and paintings, of mountains and sea. Although I remember the
blue ice that slides over the sea, I do not know the air of heaven.
I saw waves merging with the sound and a dazzling sunset, but I have
not yet lived in every moment the light of the north.
On one side of a bridge which divides the city and its time.
On which side do you want to stay?
You want to wait hidden under the first shadows, not to say to those
who love you do not go back to sleep.
What time is it?
Noon or midnight?
A few minutes more.
But the minutes are only slices of hours of which no one gives a
fuck.
The sun is still there and the shadows are sinking in the great
river.
What a blue.
Can you explain the colors of this sky? Can you explain the pink and
silver, explain this fast moon, explain the fire, explain electricity, especially
explain these songs?
Finally I heard you singing.
You never said that you knew how to do.
You never told me that you need oxygen to live, that you breathed
the nineties with the same lungs that I was beginning to fill with roads.
What was the youth of who has known only a piece of the world until
the wall fell?
What were you dreaming?
But you knew of this light much earlier than me. You already knew
that you do not dream only by night.
No, it is not yet night.
It will never be.
They're all waiting for the sun to disappear to celebrate only the
light.
No more suns will come.
It will always be the same, waiting for ships to pass, only to
reappear somewhere, with no rush.
One, two, three .... Passing quickly under a piece of road projected
into the sky.
How great it would be to be able to take a run and try to walk on it
and see if the incline of the road is enough to get spit in the blue.
Yes, I've taken photos. A lot. I could not stop.
I hope they help me to feel again those songs. that round embrace, big, while still trying to dance and sing. I
felt like it too.
I wanted to hear the words of memories. They were yours.
You were laughing.
With that letter on the lips while the shoes sank into the mud and
piss.
We did not even want to drink.
We were thirsty for light and went back to look at it again, to
focus the eyes to the sky, peering out the window to the streetlights hanging
on the road still open, with the flavor of a last sip of vodka and tired legs.
We were looking for the last perfect place. There was no need. It was all
written down somewhere where no one will read.
I'll never dare to say even to myself that I can not stop playing to
life.
Maybe I can catch this Mosca (fly and Moscow in Italian are spelled
the same). With one of those strips of glue and honey.
I will he be able to trap her, ask her to stop
torturing me and take me on its little wings somewhere where even the ice will be a mistery no more.
Treno Mosca - San Pietroburgo. Luci del nord 2
Suonava un violino in quel corridoio marmoreo.
Luce quasi diurna e sudore e batticuore.
Ultima passi in questa città dove avevo deciso di
non correre.
Stesso giorno di un’alba di pietra rossa.
Rossa.
E’ già un nuovo giorno, nuovo mondo, nuova città.
Era alba anche quella che ho visto questa notte. Che
notte non è mai stata.
Riflessa in questa piccola stanza in movimento,
dove mi sono messo a dormire ridendo tra sconosciuti, con un bacio di vino non
più illeggibile.
Come un tre, una enne, anch’essi riflessi, per
diventare l’inizio di un nome.
Cercavo quelle prime luci di un giorno lento
dentro uno specchio che avevo scambiato per una finestra.
Dove sto andando?
Sono da qualche parte tra l’est e il nord. Tra le
pianure di una terra sconfinata.
Dormo ancora, voglio provare a sognare senza buio.
Che mondo strano.
Nasi lunghi di vecchie che abbaiano e cani muti
che portano fortuna.
Uova pasquali e dolci a forma di donne che
fluttuano su scalini bassi.
Che frastuono nelle viscere della terra, decorata
di luce e pietre e brutte foto di fiori.
Ancora scale, gente che scende e sale. Non parla
nessuno, non si ferma nessuno.
Li ho visti urlare a pochi centimetri da me, ma
non sentivo niente. Non avrei capito niente.
Che giorni lunghi.
Cominciano al mercato, tra banchi di formaggio
filamentoso, affumicato come il pesce.
Non sento altro che profumo leggero, né caviale né
fiori.
Due cittadini e un diavolo che non ha voluto bere
con noi.
SI, noi.
Lei correva dietro Uzbechi tostati lungo un fiume
dove ancora soffiano parole di scorpioni che cambiano il mondo.
Chissà a che cambiamento pensavo quando ero
bambino e non sapevo che lei ballava e abitava lontano.
E studiava dentro un castello enorme, e rideva
sotto i baffi di scienziati, anch’essi di marmo.
Non era un’illusione, grande anche quella.
Migliaia di uomini e donne alienati dentro, al contempo convinti di servire al
potere.
Poteva tutto. Poteva la metà rossa del mondo che
arrivava fino all’impero del sole.
Era ancora lo stesso giorno.
Atomico.
Non so più da dove sono partito, forse riconosco
il mattino dalla tua solitudine, dalla tua mezza felicità.
Finalmente ti posso toccare senza plastica, in
questo pezzo di giorno che non è finito, ricomincia soltanto in una nuova
città.
C’è ancora luce.
C’è sempre luce.
Luce d’oro sui tetti di dio, sui bastioni della
guerra, su qualsiasi cosa che possa brillare.
Sull’acqua e sulle chiese giocattolo che facevano
divertire uomini terribili.
C’è chiasso in questa piccola europa costruita sul
fango. Ci sono voci ad ogni angolo. Nascoste dentro alle cose. Non le posso
ascoltare e mi fanno dormire.
Dormo sotto i ponti bassi, li posso toccare, li
posso attraversare.
Sorseggio uve italiane.
Dovrebbe essere sera.
Cos’è la sera? Quelle ore leggere governate dagli
uccelli, magari dal sereno dopo un temporale d’estate.
Dimmelo tu quando viene la sera.
Io sento ancora il calore sulla pelle, lo sento
provenire da un vetro e da una stella che dovrebbe essere lo stesso mio sole.
Vedo la luce bollente sulle candele di quel dolce
di pietra e colori costruito su un fiume di sangue.
Ma ancora non so che non ho ancora visto tutti gli
attimi della luce del nord.
Il mondo non è fatto solo di campanili e quadri,
di montagne e mare. Anche se ho nei ricordi il blu del ghiaccio che scivola sul
mare, non conosco l’aria del cielo.
Ho visto onde fondersi col suono e un tramonto
accecante, ma la luce del nord l’ho vissuta in ogni istante.
Da un lato all’altro di un ponte che divide a metà
una città e il suo tempo.
Da che parte vuoi stare?
Vuoi aspettare nascosto sotto le prime ombre, per
non dire a chi ti ama che non torni a dormire.
Che ore sono?
Mezzogiorno o mezzanotte?
Pochi minuti ancora.
Ma anche i minuti sono soltanto spicchi di ore di
cui non fotte niente a nessuno.
Il sole c’è ancora e le ombre affondano nel grande
fiume.
Che blu.
Mi spieghi tu i colori di questo cielo. Spiegami il rosa e l’argento, spiegami questa
luna veloce, spiegami il fuoco, spiegami
l’elettricità, spiegami soprattutto queste canzoni.
Finalmente ti ho sentito cantare.
Non mi avevi mai detto che lo sapevi fare.
Non mi avevi detto che anche a te serve ossigeno
per vivere, che anche tu respiravi gli anni novanta con gli stessi polmoni che
io incominciavo a riempire di strade.
Cos’era la giovinezza di chi ha conosciuto solo un
pezzo di mondo fino a quando il muro e caduto?
Cosa sognavi, tu?
Ma sapevi di questa luce molto prima di me. Avevi
già capito che non si sogna solo di notte.
No, non è ancora notte.
Non lo sarà mai.
Stanno aspettando tutti che il sole scompaia per
celebrarne soltanto la luce.
Non ne verranno altri di soli.
Sarà sempre lo stesso ad aspettare che passino le
navi, per ricomparire da qualche parte, senza nessuna fretta.
Una, due, tre…. Passano veloci sotto un pezzo di
strada proiettato verso il cielo.
Come sarebbe bello poter prendere la rincorsa e
provare a percorrerla e vedere se lo slancio della strada è sufficiente per
farsi sputare nel blu.
Si, le ho fatte, le foto. Ne ho fate tante. Non
riuscivo a smettere.
Spero che mi aiutino a sentire ancora quelle
canzoni e quell’abbraccio rotondo, grande, mentre cercavo ancora di ballare e
di cantare. Ne avevo voglia anch’io.
Volevo sentire le parole dei ricordi. Erano i tuoi.
Ridevi.
Con quella lettera sulle labbra mentre affondavo
le scarpe nella melma e nel piscio.
Non avevamo nemmeno voglia di bere.
Eravamo assetati di luce e siamo tornati ancora a
guardarla, a puntare gli occhi verso quel cielo nuovo, a sbirciare dalla
finestra i lampioni appesi sulla strada ancora aperta, con il sapore di un
ultimo sorso di vodka e le gambe stanche. Cercavamo l’ultimo posto perfetto.
Non ce n’era bisogno. Era già tutto scritto da qualche parte dove non potrà
leggere nessuno.
Non avrò mai coraggio di dire nemmeno a me stesso
che non riesco a smettere di giocare alla vita.
Forse riuscirò a prenderla questa Mosca. Con una
di quelle strisce di mastice e miele,
Riuscirà ad intrappolarla, le chiederò di smettere
di torturarmi e di portarmi sulle sue piccole ali in qualche posto dove anche
il ghiaccio non sarà più un mistero.
Monday, June 23, 2014
Northern light
For a couple of years now, every
time I get the urge to write a thought, a story, an article, a blog post, it
takes me to despair. I look at the date of the last written page of my diary and
it is always a few months before. I look at the date of my last blog posts
where once I wrote, and it is even a few years ago (dariosorgato.it and paroleincammino)
In the meantime, I have not stopped
writing completely, I have written articles for a blog (noisyvision.com) that has
nothing to do with travel. I have written travel articles (tripwolf.com),
which did not always have a relation with my direct experience or the way I
live the travel..
I wanted to be a blogger or a
writer. And they told me that if you want to be, you have to always write.
The less I write, the less I feel I
am. If you do not have the need, perhaps this is not even what you are.
Sometimes I justify it, saying that everything
needs a break, that everything comes in its time.
Other times I seem to be obvious,
trivial. So that I do not even want to write for myself..
Things already written, words already
spoken. Stories already experienced.
When I want to share something I
write a sentence, a brief thought. A status on Facebook.
A little out of laziness, a little
because I too got caught by speed and by the awareness that most of us do not
watch that video or images, and that a written text must be maximum as long as this far,.
From this point onwards, the most
readers are already tired. They received a notification, a ‘like’ and have
shifted the focus elsewhere.
Or do we need a different technique? In order to capture the attention and take it to the end, writing sex stories,
stories of scandals or humorous stories.
If I was talking about shit you would
read it all. A little disgusted, but it would be like a conversation about the
weather.
Instead I decided that this time I
will write. For me. And only those who have the desire and perseverance to read
some more lines will understand why. Maybe I can convey some feelings, like the
ones still orbiting in the web since a few years, from when I was writing in
the internet cafe in South Africa, of Brazil, or when I asked a donation to
friends to be able to afford the expensive internet access in Havana. (this is the translation of
that post)
The urge to write came back last
week.
I overcame the obstacle of earlier
date (October 28, 2013, the birth of my niece Rebecca), I warmed up the pen and
wrote.
June 14, 2014, the day after my
birthday.
I do not have the words.
I have written so.
A paradox.
I started writing but I had no
words.
I waited. It takes training.
A wave came, moved lightly the glass
on the table and I remembered that my blood knows the movement of the sea.
It was like smelling a perfume. I do
not know what the chemistry of the nose is, but a fragrance evokes a memory
immediately.
That little wave brought me back in
the middle of the ocean.
I was on another water. On another earth,
another air, but I was finally back in that part of me that I knew.
It was like meeting a good friend
after a long time. Four years almost exact. But time does not change the
friendship.
I was not there, anchored in a small
bay of a lake in Brandenburg, north of Berlin, in order to make the comparison
with the sea. It is not enough to float to say if it is better the taste of
salt or mud.
There is nothing in common.
I could not even find similarities
with what I knew so far of the lake.
I met a new planet. I met a new
light and a spectrum of different colors of the last nights of spring.
That light wave only served to wake me up from a deep sleep of mechanic and speed.
It served to give me a new time.
Me, that I have known the slow
time of the feet, I forgot that you can escape the hours,the minutes, and that sometimes
I need to look at the long profile of a blurred horizon that is not the city.
Trees, grass, maybe a bird in flight
that I do not know the specie. Sometimes my dazzled eyes not even distinguish a
leaf from a needle. I only see the distant shape of the flat earth, a layer of
wood in June I have never seen so green.
I do not know what lakes were, the
northern ones. The waterways, the differences in level between a channel and
the next, separated by heavy metal locls.
I did not know what was the north.
I saw the silver light of a full
moon in October over a ring where I made love.
Now I know that in the north the
sunsets are endless. I know that the moon rised shy behind the trunks, just
above the reeds on the banks, hiding behind the leaves for a few minutes and
then rises and illuminates twice the short night. From the universe to which it
belongs and from that reflection on the still, almost perfect mirror of water where nothing
flies. Maybe moths, or mosquitoes too
tired to get away from the coast.
And this is what I cannot write,
because I can not even think about it.
I see a disk in the sky, I know it's
far away, I know where its light come
from, but I never have enough silence to listen to this distance, no reason to
watch the soft light of the moon on a pond.
Just looking at it, without having
to tell anyone. Not now.
I needed this life. To remind me
that I am small. I needed to measure up to the sky, to see it all around me. I
needed to feel the cold wind.
It does not push the sails and carries no
distant song.
The north wind repeats the verse of
ducks, a bird I do not know by name.
If there was no moon there would be a
few drops of rain.
There is also water in the air. I
want to drink.
Suck an ice cube, a lemon zest.
I do not have salt on my lips. And no
smell on the skin, I do not feel it burn.
The north is mild
Water lilies and feathers.
Not even the stars.
I have not seen as I do not see for
years, but no one told me about them. She would do it for me. Stars are for
lovers.
We are six, we are in the midst of
this immense sky and at the same time as small as a pond.
We are loud. But I do not understand
many words.
I have said that I have no words.
Neither mine nor others.
I do not have time and do not know
where I am
I'm in a strange place that one day
I'll know that it was Germany.
I met the ocean, that has never
stopped, I saw the land disappear and here it never does.
I knew the light on the little waves
of the evening, soft before resting
There is no route but even no roads,
there is no compass, but there is depth.
This is also to navigate.
Slip noisily inside the silence. And
swing without sickness
I've had 36 years for 24 hours, and
I saw myself crazy. I laughed to myself. I saw this flower sticking to me with
filaments of lymph that didn’t want to break.
It was true.
It was a poem that one day you can read
to me.
When the numbers on my skin are gone.
And yet you, one morning, woke me up
brushing. Before it was day.
You were torturing me and did not
let me sleep.
It was already day,
it was the same day.
It was only yesterday.it was the same day.
Luce del nord
Da un paio di anni a questa parte ogni volta che
mi viene voglia di scrivere un pensiero, una storia, un articolo, un post, mi
prende lo sconforto. Guardo la data dell’ultima pagina scritta del mio diario
ed è sempre di qualche mese prima. Guardo la data del mio ultimo post sui blog
dove un tempo scrivevo, ed è addirittura di qualche anno fa (dariosorgato.it e paroleincammino)
Nel frattempo non ho smesso di scrivere
completamente, Ho scritto articoli per un blog (noisyvision.com) che non ha nulla a che
vedere con i viaggi. Ho scritto articoli di viaggio didascalici (tripwolf.com),
che non sempre avevano una relazione con le mie esperienze dirette o con il mio
modo di vivere il viaggio.
Volevo essere un blogger o uno scrittore. E mi
dicevano che per esserlo bisogna scrivere sempre.
Meno scrivo e meno mi sento di esserlo. Se non ho
la necessità forse non è nemmeno questo quello che sono.
A volte mi giustifico, dicendomi che in tutto ci
vuole una pausa, che ogni cosa viene a suo tempo.
Altre volte mi sembra di essere scontato, banale.
Tanto da non avere nemmeno voglia di scrivere per me.
Cos’è gia scritte, parole già dette. Storie già
vissute.
Quando ho voglia di condividere qualcosa scrivo
una frase, un pensiero breve. Uno status su Facebook.
Un po’ per pigrizia, un po’ perché anch’io mi sono
fatto prendere dalla velocità e dalla consapevolezza che la maggior parte di
noi non fa che guardare video o immagini e che un testo scritto deve essere al
massimo lungo fin qui.
Da questo punto in poi la maggior parte dei
lettori si sono già stancati. Hanno ricevuto una notifica, un mi piace e hanno
spostato l’attenzione altrove.
Oppure ci vuole una tecnica diversa. Per poter
catturare l’attenzione e portarla fino in fondo, scrivendo storie di sesso,
storie di scandali o storie umoristiche.
Se parlassi della merda leggerebbero tutti. Un po’
schifati, ma sarebbe come una conversazione sul tempo.
Invece ho deciso che questa volta scriverò. Per
me. E solo chi avrà la voglia e la costanza di leggere qualche riga in più
capirà perché. Magari riuscirò a trasmettere qualche sensazione, come quelle
che ancora orbitano nella rete da qualche anno, da quando scrivevo negli
internet cafè del Sudafrica, del Brasile, o da quando chiedevo un
contributo spese agli amici per potermi permettere la costosissima connessione
internet di L’Avana.
La voglia di scrivere mi è tornata la settimana
scorsa.
Ho superato l’ostacolo della data precedente (28
ottobre 2013, la nascita di mia nipote Rebecca), ho scaldato la penna ed ho
scritto.
14 giugno 2014, il giorno dopo il mio compleanno.
Non ho le parole.
Ho scritto proprio così.
Un paradosso.
Ho cominciato a scrivere ma non avevo parole.
Ho aspettato. Ci vuole allenamento.
E’ arrivata un’onda, si è mosso leggermente il bicchiere
sul tavolo e mi sono ricordato che il mio sangue conosce il movimento del mare.
E’ stato come risentire un profumo. Non so bene
quale sia la chimica del naso, ma un profumo rievoca un ricordo immediato.
Quella piccola onda mi ha riportato in mezzo all’Oceano.
Ero su un’altra acqua. Su un’altra terra, un ‘altra
aria, ma ero tornato, finalmente, in quella parte di me che sapevo di aver
conosciuto.
E’ stato come ritrovare un caro amico dopo tanto
tempo. Quattro anni quasi esatti. Ma il tempo non cambia l’amicizia.
Non ero lì, ancorato in una piccola baia di un
lago del Brandeburgo, a nord di Berlino, per fare il confronto col mare. Non
basta galleggiare per dire se è meglio il sapore di sale o quello del fango.
Non c’è niente in comune.
Non sono riuscito a trovare somiglianze nemmeno
con quello che finora conoscevo del lago.
Ho conosciuto un nuovo pianeta. Ho conosciuto una
nuova luce e uno spettro diverso dei colori delle ultime notti di primavera.
Quell’onda leggera è servita soltanto a svegliarmi
da un torpore meccanico e veloce.
E’ servita a darmi un nuovo tempo.
Proprio io, che avevo conosciuto il tempo lento
dei piedi, mi ero scordato che si possono dimenticare le ore, i minuti e che
ogni tanto ho bisogno di guardare a lungo il profilo annebbiato di un orizzonte
che non sia città.
Alberi, erba, magari un uccello in volo di cui non
conosco la specie. A volte i miei occhi abbagliati non distinguono nemmeno una
foglia da un ago. Vedo soltanto la forma lontana della terra piatta, uno strato
di bosco che a giugno non ho mai visto così verde.
Io non sapevo cosa fossero i laghi, quelli del
nord. I corsi d’acqua lenti, i dislivelli tra un canale e il successivo,
separati da chiuse di metallo pesante.
Non sapevo cosa fosse il nord.
Avevo visto la luce d’argento di una luna piena d’ottobre
sopra uno anello dove ho fatto l’amore.
Ora so che al nord i tramonti sono infiniti. So
che la luna nasce timida dietro i tronchi, appena sopra le canne sulle rive, si
nasconde per qualche minuto dietro le foglie e poi sale e illumina due volte la
breve notte. Dall’alto dell’universo cui appartiene e da quel riflesso fermo,
quasi perfetto, di un’acqua specchiante dove non vola niente. Forse farfalle
notturne, o zanzare troppo stanche per allontanarsi dalla costa.
E’ questo che non riesco a scrivere, perché non
riesco nemmeno a pensarlo.
Vedo un disco nel cielo, so che è lontano, so da
dove viene la sua luce, ma non ho mai abbastanza silenzio per ascoltare questa
distanza, per guardare senza nessun motivo la luce leggera della luna su uno
stagno.
Guardarla soltanto, senza doverlo dire a nessuno,
senza doverlo raccontare. Non ora.
Avevo bisogno di questa vita. Di ricordarmi che
sono piccolo. Avevo bisogno di misurarmi con il cielo, di vederlo tutto intorno
a me. Avevo bisogno di sentire il vento freddo.
Non spinge le vele e non porta nessun canto
lontano.
Il vento del nord ripete il verso delle anatre, di
qualche uccello che non conosco per nome.
Se non ci fosse la luna porterebbe qualche goccia
di pioggia.
C’è acqua anche nell’aria. Ho voglia di bere.
Succhio un cubetto di ghiaccio, una scorza di
limone.
Non ho sale sulle labbra. E non sento odore sulla
pelle, non sento bruciare.
E’ molto più mite il nord.
Ninfee e piume.
Nemmeno le stelle.
Non le ho viste come non le vedo da anni, ma non
me le ha raccontate nessuno. Non le ha contante nessuno. Lei lo avrebbe fatto per
me. Sono astri d’amore, le stelle.
Siamo sei, siamo nel mezzo di questo cielo immenso
e allo stesso tempo piccolo come uno stagno.
Siamo chiassosi. Ma io non capisco molte parole.
L’ho detto che non ho parole.
Né mie, né altrui.
Non ho tempo e non so dove sono.
Sono in un posto sconosciuto che un giorno saprò
che era Germania.
Ho conosciuto l’Oceano, che non è mai fermo, ho
visto la terra sparire e qui non scompare mai.
Conoscevo la luce sulle piccole onde della sera,
morbide prima di risposarsi.
Non c’è rotta ma nemmeno strade, non c’è bussola,
ma c’è profondità.
Anche questo è navigare.
Scivolare rumorosi dentro il silenzio. E dondolare
senza farsi male.
Ho avuto 36 anni per 24 ore e mi sono visto pazzo.
Ho riso di me. Ho visto quel fiore incollarsi a me con filamenti di umore che
non ho mai rotto.
Era vero.
E’ una poesia che un giorno mi racconterai.
Quando saranno spariti i numeri sulla mia pelle.
E ancora tu, un mattino, mi svegliavi sfiorandomi.
Prima che fosse giorno.
Mi torturavi e non mi lasciavi dormire.
Era già giorno, era lo stesso giorno.
Era soltanto ieri.
Monday, March 12, 2012
The Pink Salmon Fantasy
Ho camminato le grandi città, il delirio di un labirinto senza regole né direzione.
Ho camminato le acque di un fiume che non muore mai.
I tappeti fatti a mano di una vecchia senza volto.
Ho camminato fango e merda, centimetri di adrenalina sotto montagne che non ho mai visto.
Ho camminato mani di scimmie, immobili e rosse e bollenti.
Ho camminato la polvere, il freddo, le notti e le costellazioni senza luna.
Ho camminato il mio sordo silenzio, la voce di un bambino che non ha mai pianto.
Ho camminato ferite senza sangue, rughe di vecchi che lentamente bruciano.
Ho camminato denti marci, bocche nere sotto cappucci appuntiti.
Ho camminato dentro scarpe rotte, calzini inadeguati alla mia pelle.
Ho camminato la leggerezza del vento, le impronte microscopiche distrutte dal mio cammello.
Ho camminato il disegno invertito della Coca Cola, le lettere e i segni che non so decifrare.
Ho camminato la penombra colorata di muri di seta, dove sentirmi comodo solo dopo averne acquistato qualche metro quadrato.
Ho camminato solo voci di uomini, delle donne non ho baciato nemmeno le mani.
Ho camminato dietro carri e cavalli, asini carichi e pastori calmi.
Ho camminato questo tempo, questo paese.
Questa libertà.
Questo lusso nascosto dietro l’uniformità delle pietre.
Le fontane e il ferro, il legno e la morbidezza e il cuoio.
Ho camminato la mia voce, soffocata nel mio solitario viaggio.
Ho camminato quella che squarcia il giorno e la notte.
Parole di Dio che non ascolta nessuno.
Suoni e ombre di uccelli cattivi, passi di gatti grassi.
Ho camminato sotto una barca di legno blu.
Non solo cemento e mare
Cemento e mare.
Ci sono campi sotto i miei piedi.
Terra nuda, colline e neve.
Ci sono ancora le migliaia di miglia, le motonavi al tramonto, le reti da pesca.
Sgorga sangue di pesce dalle cicatrici del cuore morto che non ho mai mangiato.
E non ho mai paura.
Ho bevuto il te con tutti i nomi che non ricordo.
Ho comprato le storie che mi hanno saputo vendere.
Non so riconoscere un cavallo buono dai denti, né una pecora dagli occhi.
Non vinco mai.
Né un filo di seta né uno di cotone.
Compro storie.
Una Casablanca ghiacciata al prezzo di una palma di venti anni.
Per stare in silenzio. Lontano. E non ascoltare.
Né vecchi né bambini francesi.
Nemmeno il mare.
Ancora questo stesso oceano.
I pesci non muoiono di domenica.
**********************************
I walked around the big cities, the raving of a maze with no rules and no direction.
I walked the waters of a river that never dies.
The handmade carpets of an old faceless woman.
I walked mud and shit, centimeters of adrenaline by mountains that I have never seen.
I walked the hands of monkeys, motionless and red and hot.
I walked the dust, the cold, and the constellations of moonless nights.
I walked my dull silence, the voice of a child who has never cried.
I walked bloodless wounds, wrinkles of old men burning slowly.
I walked rotten teeth, black mouths underneath spiky hoods.
I walked in broken shoes, socks inadequate to my skin.
I walked the lightness of the wind, the microscopic footprints destroyed by my camel.
I walked the reversed Coca Cola label, letters and signs that I can not decode.
I walked the half-light colored silk walls, where I only felt comfortable after having bought a few square meters.
I walked only voices of men, women I have not even kissed the hands.
I walked behind wagons and horses, loaded donkeys and calm pastors.
I walked around this time, this country.
This freedom.
This luxury behind the uniformity of the stones.
The fountains and iron, wood and leather and softness.
I walked my voice choked in my lonely journey.
I walked the one that breaks through the day and night.
Words of God nobody listen.
Sounds and shadows of evil birds, fat cats walking.
I walked under a blue wooden boat.
Not only cement and water
Cement and water.
There are fields beneath my feet.
Bare ground, hills and snow.
There are still thousands of miles, motor vessels at sunset, the fishing nets.
Gushing blood of fish from the scars of a dead heart I've never eaten.
And I never fear.
I drank tea with all the names I forgot.
I bought the stories they have been able to sell.
I can not recognize a good horse by the teeth, or a sheep by the eye.
I never win.
Nor a thread of silk or cotton.
I buy stories.
A Casablanca at the price of a twenty years palm.
To be silent. Far. And do not listen.
Neither old men nor French children.
Not even the sea.
Yet this same ocean.
The fishes do not die on Sunday.
Tuesday, January 31, 2012
ORA
Ora :
Dicono che è vero che quando si muore poi non ci si vede più
dicono che è vero che ogni grande amore naufraga la sera davanti alla tv
dicono che è vero che ad ogni speranza corrisponde stessa quantità di delusione
dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione
per non farlo più, per non farlo più
ora
dicono che è vero che quando si nasce sta già tutto scritto dentro ad uno schema
dicono che è vero che c'è solo un modo per risolvere un problema
dicono che è vero che ad ogni entusiasmo corrisponde stessa quantità di frustrazione
dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione
per non farlo più, per non farlo più
ora
non c'è montagna più alta di quella che non scalerò
non c'è scommessa più persa di quella che non giocherò
ora
dicono che è vero che ogni sognatore diventerà cinico invecchiando
dicono che è vero che noi siamo fermi è il panorama che si sta muovendo
dicono che è vero che per ogni slancio tornerà una mortificazione
dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione
per non farlo più, per non falro più, ora
non c'è montagna più alta di quella che non scalerò
non c'è scommessa più persa di quella che non giocherò
ora
ora
ora...
Di Lorenzo JOvanotti Cherubini
Dicono che è vero che quando si muore poi non ci si vede più
dicono che è vero che ogni grande amore naufraga la sera davanti alla tv
dicono che è vero che ad ogni speranza corrisponde stessa quantità di delusione
dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione
per non farlo più, per non farlo più
ora
dicono che è vero che quando si nasce sta già tutto scritto dentro ad uno schema
dicono che è vero che c'è solo un modo per risolvere un problema
dicono che è vero che ad ogni entusiasmo corrisponde stessa quantità di frustrazione
dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione
per non farlo più, per non farlo più
ora
non c'è montagna più alta di quella che non scalerò
non c'è scommessa più persa di quella che non giocherò
ora
dicono che è vero che ogni sognatore diventerà cinico invecchiando
dicono che è vero che noi siamo fermi è il panorama che si sta muovendo
dicono che è vero che per ogni slancio tornerà una mortificazione
dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione
per non farlo più, per non falro più, ora
non c'è montagna più alta di quella che non scalerò
non c'è scommessa più persa di quella che non giocherò
ora
ora
ora...
Di Lorenzo JOvanotti Cherubini
Sunday, September 11, 2011
La Motagna del Diavolo
Mi piacciono le cose vecchie. Gli edifici abbandonati. Mi piace la ruggine, il legno marcio, le foglie secche, l’acqua sporca, le catene, i lucchetti di cui non si trova più la chiave, i cancelli chiusi con l’erba cresciuta attorno, i sentieri con le buche.
Credo sia una delle ragioni per cui mi piace Berlino. CI sono molti edifici vecchi, ciminiere che non fumano, mattoni rossi ricoperti di graffiti. Nell’ordine della città ci sono ancora molti spazi rotti. Alcuni vengono riutilizzati temporaneamente, occupati, fatti rivivere in attesa di una nuova destinazione d’uso. Altri si fanno conquistare dal tempo, dal freddo, dal silenzio e da qualche incursione illegale.
Tempo fa volevo andare a vedere il luna park abbandonato di Planterwald, per vedere i dinosauri, la ruota panoramica ferma, le giostre che non fanno divertire. Ma proprio quel giorno era aperto al pubblico e non vi avrei trovato quel fascino dell’abbandono che solo la solitudine amplifica. Avrei visto quello che io volevo penetrare da vicino, toccare. Volevo essere lì, dentro le storie silenziose che la meccanica ferma, il metallo ruggine non si degnano di raccontare ad un pubblico troppo numeroso. Non entrai.
Oggi, stimolato dalla bella giornata, ho deciso di fare il mio secondo tentativo di illegalità. Destinazione Teufelsberg, la Montagna del Diavolo. E’ la collina più alta di Berlino, 80 metri sopra la piana di Brandeburgo. Incredibile ma vero, è un monticello artificiale, realizzato accumulando le macerie della distruzione della Seconda Guerra Mondiale, 120 mila metri cubi di pietre, mattoni e polvere. Sotto le macerie c’è una vecchia scuola nazista che le bombe non riuscirono a distruggere, per cui si decise di seppellirla.
Negli anni ’60 l’Agenzia di Sicurezza Nazionale degli Stati uniti costruì la più grande stazione di ascolto proprio sulla cima di questa collina. Da allora le storie di spionaggio, di tunnel sotterranei e le leggende più o meno vere del periodo della Guerra Fredda, hanno consolidato l’alone di mistero che si espande intorno a questa costruzione tanto singolare.
Come dicevo, avrei voluto entrare scavalcando qualche rete, magari strappandomi i jeans, graffiandomi la faccia su un chiodo sporgente. Avrei voluto scappare inseguito da cani rabbiosi e rimanere appollaiato su un albero fino a quando un poliziotto tedesco mi avrebbe invitato a scendere per portarmi alla Centrale di Polizia o per farmi una multa.
Niente di tutto questo. Nonostante la piacevole solitaria passeggiata nella Foresta Verde, poco prima di arrivare in cima, ho cominciato a vedere auto parcheggiate e coppiette di fidanzati in ciabattine che si godevano il fresco dell’ombra degli alberi di una delle poche giornate con oltre 25 gradi dell’ intera estate.
In effetti non appena ho avvistato il primo edificio, chiaramente abbandonato, ho visto una fila di gente che firmava un foglio. Ho cercato di fare l’illegale almeno con la coda, ma niente da fare: sgamato subito.
Mi sono messo in attesa e dopo pochi minuti ero sulla cima della tanto spaventosa montagna, circondato da vecchietti e ragazzini che approfittavano della giornata nazionale (o cittadina ?) dei monumenti aperti, per visistarne uno che di solito non si può vedere se non da lontano.
Tuttavia l’edificio è piuttosto grande e all’ interno la gente di sparpagliava al punto che in molti casi mi sono trovato solo.
Solo tra muri, avvolto nell’odore pungente di vernice a spruzzo di graffiti disegnati di fresco.
Solo, con i piedi sul ciglio di un pavimento a strapiombo sulle tavole spezzate, i mattoni spaccati, sul tetto metallico con una grossa scritta bianca.
I visitatori che incrociavo non mi disturbavano più. Era tutto mite, calmo.
Forse anche gli altri, come me, si sono fatti prendere dalla suggestione di scale scure, avvolte nell’ombra, vetri che scricchiolano sotto le scarpe, qualche angolo che emana puzzo di piscio. Polvere sulle cose, sui pavimenti. I muri sembravano incastrarsi in uno strano gioco magico. Le pareti verticali esterne, completamente inesistenti, aprono lo sguardo su tutta la città . 360 gradi di visuale, e sempre, comunque, una grossa palla bianca catalizza l’ attenzione. Tre grosse palle bianche sovrastano l’intera struttura. Una più piccola si inserisce sull’orizzonte.
Mi sono seduto su un alto muro. Guardavo i graffiti prendere forma, ricoprire quelli precedenti con nuovo colore e nuova arte. Parole che non capivo. Non ce n’era nessuna, nemmeno per me. Non avevo pensieri definiti, precisi. Ero piccolo. Nascosto. Ero una minuscola particella di colore, posata solo per qualche istante.
Ero temporaneamente fissato su una mattonella all’ombra, circondato dal perimetro di un quadro di luce disegnato da un sole diafano, caldo ma lontano.
Ero attaccato ai corrimani inchiodati nel buio, e salivo scale di cemento, mentre mi arrivavano le voci di uno spettacolo di teatro.
In quel momento mi sono resto conto che se fossi stato illegale, non ci sarebbe stato nessuno. Forse nemmeno avrei avuto modo di confrontare le proporzioni, di farmi cospargere la lingua di vernice gialla.
Forse non avrei nemmeno ascoltato quel saxofono lucente, il suo suono forte, l’eco tonante dentro la palla più alta. Il violino stridente.
Dentro quella palla bianca era buio. C’erano solo le note di una musica che non era canzone. Era solo il suono. Tutti i suoi viaggi geometrici dentro la palla. Ho provato a contare quante volte poteva rimbalzare, prima di arrivare, più o meno forte, alle mie orecchie. Sono quasi riuscito a vederlo, quel lungo soffio, mentre rimbalzava su quei triangoli strani, prima di morire, tra la polvere e il vetro, o dentro di me.
Ora piove, c’è una regola matematica che dice che a Berlino, dopo una giornata di oltre 25 gradi, c’è il temporale. Matematica, non si sbaglia. Mai.
Ora c’è il temporale. Uno estivo, stupendo e fresco, come quelli della mia campagna. Vorrei poter vedere quegli stracci pedenti grondare gocce d’acqua. Intravedere le forme soltanto per la frazione di secondo di un lampo. Sarebbe tutto spettrale, nero e tremendamente bianco. Vorrei sentire il suono della pioggia dentro la palla. Vorrei sentire il suono di un tuono, dentro la palla. Vorrei vederlo saettare come le note di un saxofno e farlo morire, anche quello, dentro di me.
Se dovessi scegliere, di nuovo, quando essere illegale, vorrei poter essere lassù, sulla torre che sovrasta la macerie della Montagna del Diavolo. Lì, aspetterei il temporale. Da solo, o con te.
Saturday, August 20, 2011
Una città d'estate

Camminavo.
Percorrevo il flusso di altri.
Camminavo veloce
Volevo sentire se ne ero capace.
Volevo assaporare una nuova velocità.
Ed ho sentito la forte voglia di fare una pedalata.
Una corsa tra la gente
e le auto
E gli alberi, e i tombini
di questa città.
Volevo provare a prendere istanti più brevi
la faccia di una donna con il rossetto rosso
le calze dal ginocchio in giù
il berretto bianco di un rapper nero
con la musica nera e le cuffie bianche
i jeans attillati di un uomo alto
la cravatta disegnata sopra la maglietta
le scarpe che non fanno rumore
Volevo vedere come sono le cose quando corri
se ne appaiono di nuove
In questa città
Che come altre e come nessuna
vive d'estate.
Respira
E soffia
Ed è-
E' un colore del cielo leggero
sopra un ponte che mi ricorda sydney
e un pezzo di oceano
E' un lampione, il terzo a sinistra,
dove ho vissuto minuti d'amore
Un cortile grande e mezze colline
amici e storie e la traiettoria di un volo
Una storia non tua
dove devi soltanto recitare la tua parte
e prendere, e andare
Provo a pensare ad altre città
A quello che dicono
A come si muovono
Provo a viaggiare in alcune di queste
e ritrovarmi all'improvviso
un po' più lontano dell' ultima volta che ho sentito di di esserci
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